Tilde Capomazza e Marisa Ombra, nel loro «8 marzo. Una storia lunga un secolo» (Iacobelli Editore, 2008), hanno ricostruito l’origine della Giornata internazionale della donna, più comunemente (e impropriamente) nota come festa della donna.
Nulla a che fare con la leggenda metropolitana delle operaie rinchiuse in un’inesistente fabbrica di camicie e morte in un incendio nel 1908 a New York; l’origine è invece da ascrivere al Partito Socialista Americano nel 1909, che fissò per l’ultima domenica di febbraio la data del Woman’s Day, come occasione per una manifestazione di rivendicazione sindacale, contro lo sfruttamento del lavoro femminile, e politica, in favore del riconoscimento del diritto di voto alle donne.
Negli anni successivi anche l’Europa seguì l’esempio americano, istituendo una giornata da dedicare alle rivendicazioni sindacali e politiche delle donne, in date diverse da paese a paese. Dopo il 1921, quando in occasione della Seconda conferenza delle donne comuniste a Mosca venne fissato l’8 marzo come data per la celebrazione di una giornata di rivendicazione politica e sociale delle donne, tutti i paesi si uniformarono.
Il periodo bellico e il successivo isolamento politico dell’Unione Sovietica portarono ad un progressivo appannamento della connotazione fortemente politica e ideologica all’origine della ricorrenza, favorendo il fiorire di pittoresche “interpretazioni” alternative sulle origini della festa.
Negli anni recenti la festa della donna è diventata meno “festa della memoria” e più “festa di genere”, meno festa di ideale e più festa commerciale; è un’occasione per le tutte donne di riappropriarsi di una certezza di cui, sotto sotto, sono consapevoli fin dalla pubertà: sono le donne che fanno girare il mondo, ma non paghe di questo privilegio, con una perfidia tutta femminile, fanno credere agli uomini di essere loro (gli uomini) a farlo.
