Aggressiva, timida, arrivista, pacata, succube, avventurosa, realista, nostalgica, sognatrice… Sapere se sei meno o più vicina a questi aggettivi è uno dei quesiti del questionario che una mia cara amica ha dovuto compilare ad un colloquio di lavoro. Ogni aggettivo aveva una casellina accanto, per indicare con una P o una M quelli a cui si sentiva più o meno vicina. Poi un colloquio in cui chiedere il nome è sembrato superfluo e dove l’unica domanda è stata “Cerchi per part time o full time?”, seguita da “ok, facciamo entrare il prossimo”. Il colloquio della mia amica era stato fissato alle 11.50, quello dopo alle 11.55.
Erano previsti 5 minuti a testa. Cinque minuti, di cui alla fine ne sono stati usati due, oltretutto. Neanche nome e cognome, neanche una domanda. Pochi convenevoli, andiamo al dunque, e entri il prossimo. Aggettivi, P o M, cinque minuti. Qualsiasi commento mi sembra superfluo.
Di colloqui ne ho fatti anche io, uno era per una nota catena di articoli sportivi. Tutto molto rispettoso, simpatico, preconfezionato. Ci furono moltissime domande, personali e non, e tanti bei giochetti tipo “come venderesti questa penna”, “come faresti capire che due articoli del nostro negozio sono entrambi di buona qualità nonostante uno costi il doppio dell’altro” e via discorrendo. “Se vieni a lavorare qui devi credere nel progetto”. Mi chiedo a quante domande devo essere in grado di rispondere per un contratto part time di tre mesi, quanto devo dimostrare.
Ma insomma, non ci va bene niente? Molte cose non ci vanno bene, no. Per esempio le situazioni in cui ci mancano di rispetto, in cui siamo trattati con sufficienza e scarsa considerazione, in cui veniamo messi alla prova per riuscire ad avere qualche briciola. Le cose si possono fare meglio, le persone, anche i ventenni, si possono trattare bene.
C’è qualcosa di meglio di un questionario con degli aggettivi. Che poi mi resta solo un dubbio, “succube” era da considerarsi positivo o negativo per loro? Mi sa che la risposta preferisco non darmela.
