Mark Zuckerberg aveva quattro anni quando, nel 1988, uscì Inseparabili di David Cronenberg. In una delle numerose scene memorabili del film, uno dei “due” protagonisti, Elliot, dice al gemello Beverly, parlando della donna di cui quest’ultimo si sta innamorando e che sta minando il loro rapporto simbiotico: «Non hai mai scopato con Claire Niveau se non ne parli con me!».
La frase sintetizza il morboso rapporto tra i due fratelli, che condividevano (fino a quel momento) ogni aspetto ed ogni esperienza dalla loro vita. La condivisione di un fatto, per loro, rappresentava l’essenza del fatto più del fatto stesso.
Cronenberg anticipava di qualche lustro uno dei concetti cardine di Facebook: non hai fatto qualcosa se non l’hai condiviso.
Non sei davvero andato a cena fuori, se non hai pubblicato su Instagram almeno un paio di foto di ciò che hai mangiato e bevuto.
Non sei realmente andato in vacanza se non hai condiviso quotidianamente su Facebook il tuo stato d’animo sotto l’ombrellone.
Per avvalorare le condivisioni, e non rischiare di essere considerati dei millantatori, meglio anche fornire le prove; in quest’ottica la geo localizzazione diventa una testimonianza super partes che convalida la nostra condivisione.
Ecco quindi esplodere fioriture di condivisioni per far sapere a tutti dove siamo in un certo momento e cosa stiamo facendo.
La “bulimia condivisoria”, però, rischia alla lunga di far perdere importanza a ciò che condividiamo: condividere troppo equivale a non condividere niente.
Recuperare il senso della misura significa restituire il giusto valore alle cose, magari arricchendo le nostre condivisioni con un’aggiunta che ci rappresenti, come un commento, un giudizio, un’emozione o quant’altro le identifichi come nostre espressioni: condividere meno, ma condividere meglio.
E certi fatti, come ha compreso anche Beverly, è meglio tenerli gelosamente per sé e non condividerli proprio (o quanto meno non sui social).
