Ho pensato a quelle mani. Alle mani che lo hanno adagiato nella culla. Un gesto quotidiano, per una mamma. Eppure quella non è una culla come le altre. E quel gesto non ha nulla di quotidiano.
Ho pensato agli occhi che lo hanno guardato. Per l’ultima volta. E me lo son chiesta: perché? Come? Cosa? La risposta che mi sono data – l’unica – è stata: l’amore. L’amore nonostante tutto. L’amore nella disperazione. L’amore che non trattiene ma è capace di lasciar andare. L’amore che riesce ad andare oltre gli egoismi. Che ama e basta. È l’Amore.
Ha due mesi. Lo ha accolto il personale dell’ospedale, medici, infermieri. Era nella culla del progetto “Ninna oh“. Lì lo ha messo la sua mamma – forse. Al sicuro da tutto. E da tutti.
Lo hanno chiamato Francesco.
Ho letto la notizia sul giornale. E mi si è scaldato il cuore. E ho pensato a chi un figlio lo aspetta. Da anni. A chi culla il desiderio di esser mamma. E babbo. A chi aspetta una telefonata. Ho pensato ai servizi sociali. Giudici onorari. Il tribunale. Cartelle. Scartoffie. Udienze. Perché la vita di Francesco adesso è anche questo. Perché anche lui abbia – di nuovo – un babbo e una mamma. Presto. Braccia accoglienti. Sguardi di amore. E intanto penso di nuovo agli occhi che lo hanno guardato, per l’ultima volta. In quella cullina d’ospedale. Quello sguardo, l’ultimo. Io credo sia stato una carezza. Calda. Dolce. Piena di amore. E non chiamatela “struttura per neonati non desiderati”. E non chiamiamoli bambini abbandonati. Almeno proviamoci. Perché io non credo che quello sia abbandono. Credo sia affidare. E non è questione di parole. È sostanza. Vera e profonda. È Amore.
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