Il 17 luglio, loro quarto compleanno ufficiale, è stata la giornata mondiale degli emoji. Gli emoji, in sostanza, sono l’evoluzione degli emoticon, ovvero quelle “faccine” nate per comunicare stati d’animo ed emozioni in maniera più immediata rispetto alle parole. Gli emoticon sono sequenze di caratteri standard, che riproducono espressioni facciali. Gli emoji sono delle vere e proprie immagini che sostituiscono una o più parole.

Negli scambi di messaggi sul solo Messenger, vengono utilizzati ogni giorno 900 milioni di emoji senza testo.

Un’immagine vale più di mille parole.

La nascita esatta degli emoji non è individuabile con precisione. Il 17 luglio è stato convenzionalmente adottato come compleanno, perché è la data riportata sul primo emoji raffigurante il calendario su Ios.

Dal punto di vista della comunicazione gli emoji hanno un notevole impatto, purché non se ne abusi. Messaggi infarciti di emoji inesorabilmente ne sviliscono il significato. Un rischio connesso all’uso (o, meglio, all’abuso) degli emoji è che si perda la capacità di esprimere (per chi scrive) o di cogliere (per chi legge) concetti o sfumature attraverso le parole. Una battuta raffinata può essere banalizzata da un emoji ridacchiante; d’altronde, in una comunicazione spesso veloce e superficiale, una sottile ironia rischia di passare inosservata se non sottolineata da una faccina sorridente.

L’uso degli emoji, quindi, andrebbe dosato con misura, ma soprattutto in coerenza con ciò che si esprimerebbe de visu in una comunicazione tradizionale, senza stravolgere il significato del messaggio o esprimendo qualcosa di diverso dal reale stato d’animo. Si è andata diffondendo una sorta di “convenzione digitale”, che porta ad amplificare le reazioni attraverso un uso esagerato di emoji, ad esempio commentando battute vecchie e stantie con un profluvio di faccine che si sbellicano dalle risate.

Una sorta di ipocrisia relazionale 2.0.

A giudicare dalla quantità industriale di cuori pulsanti nei messaggi, conseguentemente, verrebbe da credere che il mondo sia pieno di persone allegre e positive. Il fatto che, invece, il vicino di sedile in autobus, mentre dispensa bacini e cuori pulsanti digitali, abbia un’espressione talmente incarognita da far sembrare Charles Bronson un clown (non Pennywise, beninteso), lascia trapelare una certa dicotomia tra vera natura e proiezione digitale.

In tal senso il nostro alter ego social spesso è migliore di noi. Di sicuro, soprattutto in estate, è meno sudato del nostro vicino di sedile in autobus.

Mi piace definirmi lombardo di origine, fiorentino di adozione. In realtà Firenze se ne è ben guardata dall’adottarmi. Non si è neppure sbilanciata su un affido. In sintesi, quindi, sono un apolide, con un accento da autogrill, che vive a Firenze da circa un quarto di secolo. Delle numerose passioni che coltivo, quella per la musica è il filo conduttore dei miei primi interventi su tuttafirenze, ma il mio ego ipertrofico e la mia proverbiale immodestia mi spingono ad esprimermi su qualunque argomento, con la certezza di riuscire a raggiungere vette non comuni di banalità e pressapochismo. I miei contributi hanno uno scopo ben preciso: rincuorare le altre firme, dando loro la consapevolezza che c’è sempre chi fa peggio.