Ottobre 2015 verrà ricordato come un mese infausto per l’editoria. Certo, anche perché Mondadori ha acquistato Rizzoli, diventando in pratica editore unico (o quasi) per il mercato italiano, ma la notizia epocale è un’altra: l’editore di Playboy ha annunciato che da marzo 2016 la rivista non pubblicherà più foto di donne nude.
Playboy casto è come Berlusconi gay: un ossimoro.
Playboy ha sessantadue anni (le conigliette, che hanno fatto sognare generazioni di maschietti, parecchi meno). Per oltre sei decadi ha solleticato le fantasie degli uomini con fotografie che poco lasciavano all’immaginazione. Non si tratta di pornografia, ma di una disinibita esibizione di nudità femminili fotografate, la maggior parte delle volte, con gusto: softcore, dicono gli anglofoni, evidenziando, anche foneticamente, la netta contrapposizione con il più volgare hardcore.
Per gli italiani nati tra la metà degli anni cinquanta e la metà degli anni settanta, Playboy ha rappresentato il “livello-master” di quello che si potrebbe definire “onanismo da Postal Market”, ma in realtà è stato molto di più: è stato una delle cause del cambiamento di costume degli anni cinquanta e una delle spinte alla rivoluzione sessuale degli anni sessanta.
Non esiste maschio che abbia passato gli “anta” che non abbia sfogliato almeno un numero di Playboy; in compenso solo una piccola percentuale di coloro che l’hanno sfogliato l’hanno anche letto.
Purtroppo.
Perché sulle pagine della rivista hanno trovato posto interviste ai personaggi più rappresentativi del secolo scorso, come Malcolm X, Jimmy Carter, John Lennon, Fidel Castro o Miles Davis, senza contare gli articoli scritti da alcuni dei più illustri intellettuali del novecento, come Jean Paul Sartre, Vladimir Nabocov, Ian Fleming, García Márquez, Margaret Atwood, Norman Mailer o Jack Kerouac.
Grazie alla sua posizione di rottura nei confronti dell’establishment, gli intervistati illustri di Playboy si lasciavano andare ad affermazioni e confidenze che non trovavano facilmente spazio su altre testate. Memorabile, ad esempio, l’affermazione di Steve Jobs, che nel 1985 a Playboy dichiarò che la morte è la più bella invenzione della vita, perché elimina i vecchi modelli, oramai obsoleti.
Lo spessore degli articoli ha rappresentato per molti la giustificazione all’acquisto, per altri un’interessante digressione tra un seno e l’altro, ma in tutti i casi è stato un non trascurabile contributo alla (contro)cultura del secolo scorso.
Le attuali ottocentomila copie sono poca cosa al confronto dei quasi sei milioni di copie del periodo d’oro negli anni settanta, al culmine del successo. Da questo drastico ridimensionamento delle vendite nasce l’estremo tentativo di Scott Flanders, amministratore delegato, e di Hugh Hefner, storico fondatore, di dare una nuova connotazione alla rivista. L’abbandono di ciò che è stata la bandiera della testata per oltre sessant’anni è sicuramente la soluzione più clamorosa.
Funzionerà? Non funzionerà? Sarà semplicemente una boutade pubblicitaria? È ancora presto per dirlo. Di sicuro ci sono già le prime prese di posizione. Il Messico, ad esempio, non ci sta. L’edizione messicana della rivista non si adeguerà al nuovo diktat. Su Playboy messicano le foto rimarranno osé, come da tradizione.
Sarà però arduo, per lo meno in Italia, sostenere che si compra quella versione in spagnolo della rivista per gli articoli e le interviste.
