Il progressivo calo dei contagi, che procede di pari passo con il progressivo aumento dei vaccinati, sta spingendo qualcuno a sbilanciarsi su quando si potrà tornare alla “normalità” (alcuni mesi?). Premesso che ognuno dà al termine un suo significato personale, c’è comunque un simbolo che identifica in maniera forte questo periodo e che quando non ci sarà più darà il senso del “ritorno al prima”: la mascherina.

All’inizio era un oggetto del desiderio, introvabile nelle prime settimane di pandemia. La nascita di un mercato di massa, per un accessorio che in precedenza era limitato a ristretti ambiti professionali, ha generato un business che in breve tempo ha portato la mascherina ad essere un oggetto d’uso quotidiano: una indosso e una di scorta sempre in tasca o in borsa.

Da subito la mascherina si è trasformata, da strumento di protezione individuale, in espressione del modo di chi la indossa di percepire la (e di reagire alla) situazione.

Chi si accontenta della mascherina chirurgica, per proteggersi adeguandosi alla normativa senza troppi patemi d’animo, dimostrando il proprio pragmatismo.

Chi preferisce la maggiore protezione fornita dalle FFP2, per affermare la propria necessità di essere particolarmente prudente, manifestando forse segni più profondi della propria reazione al momento storico.

Chi preferisce le mascherine colorate o allegre per proteggersi, reagendo in maniera positiva (si scusi il termine) e cercando di trasformare un obbligo sanitario in un’occasione di spiritosa rivalsa, a dimostrare che la pandemia non uccide la fantasia e la voglia di reagire.

C’è anche chi ha colto l’occasione per dimostrare la propria appartenenza agli happy few, sfoggiando improbabili mascherine e visiere dal costo di centinaia di euro.

Una cosa, però, accomuna le varie tipologie di mascherine: coprono la maggior parte del viso, togliendo letteralmente il sorriso e cancellando le espressioni.

Dal nostro repertorio comunicativo è stata improvvisamente cancellata una componente fondamentale. Di colpo abbiamo dovuto cercare attraverso altri canali ciò che non ci arrivava più dall’espressività del viso.

Alcuni hanno imparato ad utilizzare (e ad interpretare) il tono della voce e la gestualità per sopperire alla mancanza. Un po’ come accade quando uno dei sensi viene meno e gli altri si acuiscono a compensazione, così abbiamo imparato a dare importanza ad altri aspetti della comunicazione. Abbiamo dovuto ingegnarci a comunicare con la stessa efficacia, pur in mancanza di uno strumento che ritenevamo indispensabile.

Molti, però, non ci sono riusciti e sono stati vittime di fraintendimenti e incomprensioni varie. Per loro (noi!) l’abolizione della mascherina sarà una benedizione.

Altri, invece, arriveranno forse addirittura a rimpiangere la mascherina, che ha fatto riscoprire l’importanza degli occhi nelle interazioni personali, che ha permesso di restituire allo sguardo quel valore comunicativo che era stato da molti dimenticato, che ha concesso ai più fortunati di perdersi negli occhi di chi è in grado di comunicare profonde emozioni e sinceri sentimenti anche senza la bocca.

Se nel ritorno alla “normalità” di un mondo senza mascherine, qualcuno non dimenticherà questo insegnamento, qualcosa di buono lo avremo ottenuto.

 

 

Foto di Juraj Varga da Pixabay
Mi piace definirmi lombardo di origine, fiorentino di adozione. In realtà Firenze se ne è ben guardata dall’adottarmi. Non si è neppure sbilanciata su un affido. In sintesi, quindi, sono un apolide, con un accento da autogrill, che vive a Firenze da circa un quarto di secolo. Delle numerose passioni che coltivo, quella per la musica è il filo conduttore dei miei primi interventi su tuttafirenze, ma il mio ego ipertrofico e la mia proverbiale immodestia mi spingono ad esprimermi su qualunque argomento, con la certezza di riuscire a raggiungere vette non comuni di banalità e pressapochismo. I miei contributi hanno uno scopo ben preciso: rincuorare le altre firme, dando loro la consapevolezza che c’è sempre chi fa peggio.

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