Sono arrivati che erano una sessantina. Di notte. A due passi da casa nostra. Leggo la notizia dei migranti accolti alla scuola materna Gobetti, a Sesto Fiorentino, e mi scappa detto:
“Sono nell’asilo dov’è stato in gita Giovanni!”.
“Chi?”.
“Dove?”.
“Che hai detto, mamma?”.
“No, bimbi è che….”.
“I mimmi dell’asilo?”.
“Qualche bimbo c’è. E sono all’asilo ma non sono i tuoi amici. Sono arrivati con il babbo e la mamma da molto lontano”.
“Un monte lontano?”.
“Un mare lontano”.
“E colle valigge? Come noi in vacanza?”.
Devo dirglielo: che no. Devo spiegarglielo. Che quei bambini non sono all’asilo per giocare, conoscere. Per ciacciare, disegnare. Devo spiegarglielo, che quei bambini sono in un asilo che li accoglie in emergenza. Perché loro sono migranti venuti da lontano. Migranti che fuggono, che rincorrono il sogno di una vita “normale”.
Devo spiegargli della sofferenza, del dolore nel dover lasciare la propria casa per andare chissà dove. Della paura. Di quel senso di disperazione che…. No! Gli spiegherò tutto, ma non della disperazione. E il fatto che siano stati accolti proprio in un asilo, mi tocca sul vivo. E mi commuove. E mi viene da pensare a tutto, ma alla disperazione proprio no.
All’accoglienza, piuttosto. Braccia che si aprono e si richiudono in un abbraccio. Uno sguardo. Un sorriso. Un bambino che chiede: “Vuoi giocare con me?”. E gli interessa poco di chi sei o da dove vieni. A volte neppure di come ti chiami!
Gli parlerò dell’accoglienza. Di quanto possa sembrare faticoso, accogliere. E di quanto in realtà, chi accoglie, riceva molto più di quello che ha dato. E io ci credo. Profondamente. Punto.
La foto è di Roberto Vicario su www.piananotizie.it